I bitcoin comportano consumo di energia e dunque emissioni di anidride carbonica, il gas dei cambiamenti climatici. Le – diciamo così – emissioni annuali dei bitcoin sono analoghe a quelle di Paesi come la Giordania o lo Sri Lanka, e comprese fra 22 e 22,9 milioni di tonnellate di anidride carbonica. Se si prendono in considerazione anche le altre criptovalute, le emissioni probabilmente raddoppiano. Lo dice uno studio appena pubblicato su Joule.
Le criptovalute, o monete digitali, sono sottratte al controllo delle banche centrali. Il bitcoin è la più famosa, per via del valore impennatosi (e poi sgonfiatosi) del 2017-18. Per ridurre concetti complessi a una pillola, la validazione e la registrazione degli scambi di criptovalute sono affidate alla soluzione di calcoli molto complessi effettuati da computer; chi riesce a trovare la soluzione per primo viene premiato con l’emissione di altra criprovaluta.
Il problema è i computer consumano energia elettrica, alla quale – se viene prodotta a partire da fonti fossili – è associata l’emissione di anidride carbonica.
Lo studio pubblicato su Joule ha stimato la quantità di energia elettrica necessaria per per “far funzionare” i bitcoin e ha individuato i luoghi in cui essa viene consumata e prodotta, associandovi quindi le emissioni proprie del mix energetico locale.
Il risultato è appunto compreso fra i 22 e i 22,9 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno. All’incirca come Kansas City (conta 500.000 abitanti), oppure lo Sri Lanka, o ancora la Giordania.
Su scala planetaria non è un’enormità. Fa però parte di tutte quelle cose che non sono indispensabili per una vita dignitosa, che prese una per una non rappresentano un’enormità e che – nel complesso – hanno portato così rapidamente il pianeta al caos climatico.